Perché anche lo spettatore medio è interessato ad ascoltare solo quello che ha scritto davvero il compositore, non aggiunto o cambiato da editori o interpreti, ed è interessato che non ci siano falsificazioni. Esiste, ovviamente, l’interpretazione artistica, ma le fonti devono essere quelle originali. Spesso, però, ciò non succede: diciamo che magari il 95% delle note e dei segni coincidono in tutte le edizioni di una partitura, ma è il restante 5% che fa la differenza.
Ed in Čajkovskij questo si è fatto molto raramente…
Negli anni ’70 l’Unione Sovietica realizzò una pubblicazione integrale delle opere di Čajkovskij, cercando di analizzare criticamente le fonti, ma questo riuscì solo parzialmente: ne sortì un lavoro più per le biblioteche che volto davvero a influenzare la prassi esecutiva. Fu realizzata soltanto la partitura, ma non il materiale orchestrale.
Perché ha deciso di occuparsi di Čajkovskij?
Per puro caso. In Germania esiste, dagli anni ’90, una Čajkovskij-Gesellschaft che mi ha proposto di occuparmi più regolarmente del compositore: da allora sono - per così dire - in diretto contatto con lui… In più la casa editrice Breitkopf & Härtel mi chiese di realizzare l’edizione critica di una sinfonia: accettai scegliendo la Quinta, che già allora conoscevo a memoria poiché mio figlio suonava il violoncello in orchestra, oltre ad essere un pezzo di comune repertorio.
Dove si trovano le fonti primarie per realizzare l’Urtext della musica di Čajkovskij?
Quasi tutte in Russia, o al Museo Glinka di Mosca (dal 2018 “Museo nazionale russo di musica”) oppure a Klin, alla casa-museo Čajkovskij, che è oggi un istituto di ricerca. Vi si possono trovare gli autografi e le prime edizioni a stampa di quasi tutta la musica del compositore russo. Per la Quinta ho lavorato a Mosca.
Nella prossima stagione l’OSI proporrà le Sinfonie nn. 1, 5, 6, il Manfred e il Concerto per violino: qual è lo stato delle fonti per queste partiture?
Molto vario: per il Concerto per violino abbiamo da poco tempo a disposizione un’edizione critica che costituisce uno dei primissimi frutti di un nuovo progetto editoriale intrapreso in Russia da qualche anno, una nuova edizione critica accademica delle opere complete.
Per la Quinta, come le dicevo, c’è la mia versione, mentre della Prima e della Sesta non esistono edizioni moderne.
La Prima sinfonia, poi, esiste in due versioni distinte: varrebbe la pena riascoltare la prima?
Della versione originale della Prima sinfonia non abbiamo il manoscritto, solo una copia, e dal punto di vista filologico non è facile capire quanto sia autentica: tuttavia sarebbe interessante conoscerla maggiormente. So che è stata anche incisa, ma la musicologia è ancora all’inizio a tal proposito: non è da escludere che esistano varie “tappe” di questa prima versione. Ma non è l’unico grattacapo cui la filologia čajkovskiana ci mette di fronte: basti pensare alle Variazioni Rococò, in cui il violoncellista Wilhelm Fitzenhagen è intervenuto pesantemente, sia modificando la riduzione pianistica, poi orchestrata (o riorchestrata?) da Čajkovskij, sia all’atto esecutivo (alterando anche l’ordine delle variazioni). Il compositore ne fu così frustrato che decise di lasciare la partitura al suo destino: ma ancora oggi è difficile ricostruire le intenzioni originali di Čajkovskij, che abitualmente chiedeva consiglio ai virtuosi per cui scriveva i suoi grandi Concerti, talora accettandone alcuni utili ritocchi.
Già: la filologia deve distinguere tra cosa è autentico, cosa è spurio, cosa non è accettabile… Penso per esempio alla “versione Auer” del Concerto per violino, che ha influito molto sulla fortuna di quella partitura.
Assolutamente sì: il Concerto fu pensato non per Leopold Auer, ma per il violinista Iosif Kotek, e modellato sulle sue capacità esecutive. Comunque abbiamo testimonianze dirette del fatto che, quando furono altri solisti ad eseguirlo, Čajkovskij introdusse modifiche ad hoc. Nel caso della Sesta sinfonia, egli fece delle modifiche nel secondo e terzo movimento dopo la prima esecuzione: quindi, cosa è “più autentico”?
Il pensiero originale o le alterazioni successive?
Non è facile, oggi, prendere una posizione netta in sede esecutiva. Ovviamente, il compositore considerava anche le possibilità divergenti degli spazi musicali dove le sue opere venivano eseguite, aggiustava il materiale sonoro secondo la diversa acustica (come faceva anche Mahler, per esempio). Per quanto riguarda la Quinta, Čajkovskij ne fu dapprima soddisfatto e poi, in breve tempo, profondamente deluso: fra chi la ascoltò, alcuni come Taneev reagirono con entusiasmo, mentre altri affermarono che non era il “vero” Čajkovskij. Quindi velocemente accantonò la partitura per dedicarsi alla Sesta: tuttavia, per l’ultima esecuzione ad Amburgo, fece dei tagli nel finale che ci sono stati trasmessi grazie alla partitura di Mengelberg, il grande direttore olandese, il quale affermò di avere ricevuto queste indicazioni tramite Modest Čajkovskij, il fratello del compositore, che gli mostrò la partitura originale. Oggi non possiamo sapere con certezza quanto Mengelberg abbia copiato scrupolosamente e quanto sia intervenuto di proprio pugno, tuttavia la sensazione è che la “versione Mengelberg” corrisponda alle intenzioni di Čajkovskij e sia quindi praticabile anche oggi in sede esecutiva.
La musica di Čajkovskij è sempre stata suonata moltissimo: in qualche modo questo ha fatto sì che si incrostassero cattive abitudini esecutive?
La vera difficoltà sta nel ricostruire quale fosse il suono dell’orchestra negli anni ’90 dell’Ottocento in Russia. Per quanto riguarda alcuni strumenti - per esempio i contrabbassi - è importante prendere in considerazione i modelli dell’epoca. Poi possiamo sapere quanti musicisti suonavano nelle orchestre (Čajkovskij è molto preciso nell’indicare quanti strumentisti sono richiesti in ogni sinfonia): ma al di là dei numeri è importante immaginare l’ideale sonoro. Come erano i contrasti? Esacerbati o smussati? Le transizioni nette o sfumate? Non è facile saperlo: noi siamo abituati a decenni di “suono sovietico” che, specie in epoca staliniana, ha monumentalizzato il suono di Čajkovskij, facendo perdere le sottigliezze e la dimensione cameristica che questa musica avrebbe in sé. E questa tendenza all’enfasi, al pathos ha presto caratterizzato molte esecuzioni anche fuori dall’Unione Sovietica.
Quindi le dimensioni dell’OSI potrebbero essere ideali per questo processo di ricostruzione del suono originale?
Assolutamente sì! Nelle Sinfonie ci sono molti punti in cui la trasparenza è fondamentale, in cui il direttore deve badare alle sottigliezze, alla precisione, senza appesantire: in questo Markus Poschner è un direttore ideale.
Nella seconda metà del ‘900 Čajkovskij era visto da una certa intellighenzia come musicista sentimentale, mediocre, troppo popolare: oggi, secondo lei, come lo si vede? Una specie di simbolo della musica russa?
Non è facile rispondere: Čajkovskij è solo una delle facce della musica russa. Per molti lo fu, per altri molto poco, considerando invece un compositore come Musorgskij un simbolo molto più autentico dello spirito e della cultura russa. Čajkovskij fu cosmopolita, con il suo amore per la musica francese, italiana, per Mozart: non era un nazionalista come i componenti del “Gruppo dei cinque”, ma voleva staccarsi dalla tradizione sinfonica austro-germanica.
Fu un uomo complicato: il finale trionfale della Quinta mostra evidenti contraddizioni semantiche, visto che un tale trionfo non è facile da capire dopo il persistente ritorno del motivo “del fato” in ogni movimento, mentre quello della Sesta corrisponde alla sua indole melanconica. Nella sua musica ci sono diverse idee, diversi principi estetici che si scontrano: e la Quinta è un tentativo di farli convivere. Quanto al giudizio di valore, fu Adorno a esprimersi in maniera severa: ma oggi i tempi sono cambiati e, se in passato l’unico standard visto dalla prospettiva “tedesca” era la tradizione beethoveniana, oggi si ha una prospettiva più varia e diversa; per questo Čajkovskij è molto rispettato anche come sinfonista.
L’Orchestra della Svizzera italiana non è solo un luogo di conservazione, di cura e di interpretazione di un prezioso e meraviglioso patrimonio musicale e culturale. Molto di più: è un centro di incontro e di confronto per la collettività, partecipe della complessità del suo presente e orientato verso il suo futuro.
L’OSI esiste nel contesto sociale, urbanistico ed economico del territorio nel quale si trova ad operare; vive nell’ambito di una comunità e grazie alle risorse da lei messe a disposizione; contribuisce attivamente alla definizione dell’identità di questa comunità e la rappresenta verso l’esterno, sia a livello nazionale che internazionale; è un osservatorio sociale ed un’officina di creatività e di ricerca; è un luogo dove la collettività può definire, osservare ed elaborare tematiche ed istanze che le sono rilevanti. In questo senso, è, vuole e deve essere un’entità politica.
L’OSI è un’Agorà.
Già nel 2019, nella concezione del Ludwig van Festival, ci siamo confrontati in modo esplicito con queste istanze, mettendo in gioco una drammaturgia interdisciplinare, intermediale e innovativa; il risultato ci è sembrato particolarmente incoraggiante, per non dire entusiasmante. Su quello slancio cominciamo ora un viaggio che, per le prossime due stagioni, abbiamo deciso di chiamare Tracce →. Come allora, con Beethoven, l’ispirazione nasce da una intuizione radicata nel repertorio: in questo caso il progetto di Markus Poschner di eseguire con l’OSI l’integrale delle Sinfonie di Čajkovskij, compresa la monumentale Manfred-Symphonie.
Una caratteristica particolarmente importante della drammaturgia del progetto, accanto alla declinazione dei capolavori di Čajkovskij in ambito contemporaneo, è l’attenzione al tema del “viaggio”, prendendo spunto per esempio dalle numerose permanenze di Čajkovskij in Svizzera e, di conseguenza, il coinvolgimento di luoghi diversi come elementi – non solo drammaturgicamente ma intrinsecamente, fisicamente – narrativi. Il luogo dove un evento ha... luogo diventa così parte integrante del contenuto dell’evento stesso; come amo dire, «il contesto è parte del testo».
Uno di questi luoghi, naturalmente, sarà la stessa Lugano: già per la prima tappa del progetto, a settembre, l’OSI realizzerà per esempio delle registrazioni audiovisive in diversi luoghi identificanti della città, iniziando così un dialogo artistico e narrativo con la realtà del proprio territorio, dialogo che intendiamo sviluppare ad ampio raggio nel futuro.
Due altri elementi fondamentali sono appunto l’interdisciplinarietà e l’intermedialità da un lato e l’utilizzo artistico della tecnologia digitale dall’altro.
L’interazione organica tra diverse discipline – in particolare tra la musica, il linguaggio audiovisivo e l’arte digitale – vuole andare molto al di là sia di un utilizzo decorativo, troppo spesso presente in progetti multimediali, sia dell’ingenuità con la quale i mezzi digitali sono stati sfruttati dalle istituzioni culturali in tutto il mondo durante i mesi passati, più per forza che per volere, a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia della quale stiamo vivendo, speriamo, la fase finale.
Per tutti questi motivi l’OSI ha invitato a collaborare, come già fatto due anni fa, diverse realtà ticinesi come il CSI - Conservatorio della Svizzera italiana e il CISA - Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di Locarno; altre ne seguiranno, ad ampio raggio e anche al di fuori dell’ambito specificatamente artistico e culturale. Il desiderio di interagire in modo continuativo e strutturale con le forze vive della regione conferma da un lato l’identità interdisciplinare del progetto e dall’altro, come si diceva, la sua vocazione e la sua anima politica (naturalmente nel senso originale del termine: pertinente alla polis, alla comunità) e sociale.
Non sappiamo ancora esattamente dove ci porterà tutto ciò; probabilmente non è nemmeno così importante saperlo, in questo momento di inizio e di slancio. Ci auguriamo che la strada possa essere lunga e appassionante; certo è che siamo convinti che sia una strada necessaria per fare sì che un’istituzione come un’orchestra sinfonica possa operare in modo significativo ed efficace nell’affascinante complessità del proprio territorio e del mondo contemporaneo.
Il primo episodio è "Nei Giardini di Cologny", del giovane compositore ticinese Giuliano D'Agostini, che si è lasciato affascinare dalla Sinfonia "Manfred", isolandone alcuni tra i temi più significativi e ricostruendoli in tre brevi brani per il quintetto di fiati dell'OSI; nel suo lavoro riecheggiano anche, nascosti, frammenti di Mussorgsky, Dallapiccola e il Berio dei "Folk Songs".
Alessandra Russo, Federico Cicoria, Paolo Beltramini, Alberto Biano e Vittorio Ferrari hanno registrato le parti dell'opera ciascuno in un luogo diverso dei giardini di Villa Diodati, creando un primo delicato caleidoscopio di suggestioni visive oltre che musicali.
Il secondo episodio del nostro viaggio "Aspettando Manfred" è oggi dedicato a "Fragmenta", opera scritta per noi del giovane compositore Roberto Mongardini, che trae ispirazione dall’elaborazione di un insieme di frammenti della Sinfonia "Manfred" di Čajkovskij. Si tratta di sei brevissimi pezzi per quartetto di fiati, molto differenti tra di loro, che raccolgono l'ispirazione delle note di Čajkovskij secondo l'estetica della citazione e del frammento, come suggerisce il titolo, ricomponendole in un caleidoscopio di nuove costruzioni sonore. Il settimo pezzo, più lungo, sviluppa poi ulteriormente le suggestioni dei precedenti.
Anche in questo caso, come nell'episodio precedente, Alessandra Russo, Federico Cicoria, Paolo Beltramini e Alberto Biano hanno registrato le parti dell'opera ciascuno in un luogo diverso dei giardini di Villa Diodati a Cologny, sul Lago di Ginevra, creando un affascinante dialogo visivo ad accompagnare il contrappunto musicale.
Il terzo episodio di "Aspettando Manfred", il nostro percorso di avvicinamento alla serata del 20 aprile al LAC con l'esecuzione della Sinfonia "Manfred" di Čajkovskij è dedicato alla breve composizione "Tis not so difficult to die" del giovane compositore Marco Infantino, che affida al fagotto solista di Alberto Biano uno sguardo sulla conclusione della tormentata vicenda del giovane nobile Manfred.
La semplice, straniata e solitaria melodia, che scaturisce dal registro grave del fagotto per perdersi infine nell'acuto, e il progressivo allontanamento prospettico del solista, nel contesto idillico del giardino di Villa Diodati, sono metafora musicale e scenica del raggiungimento di Manfred della desiderata morte.
Proseguiamo oggi il nostro viaggio verso la grande serata del 20 aprile al LAC, con il quarto episodio di "Aspettando Manfred": "Micro Images for Two Violins", la breve opera scritta appositamente per questo progetto da Hugo Vasco Reis, giovane compositore che ha concepito questo lavoro nell'ambito della nostra collaborazione con la zürcher Hochschule der Künste di Zurigo.
Il luogo particolare dove Robert Kowalski, il primo violino dell'OSI, ha registrato il lavoro – il "Pré Byron", la spianata antistante la Villa Diodati, dove Lord Byron ha soggiornato per un lungo e creativo periodo – ha suggerito a Hugo Reis una serie di sottili, nascoste relazioni con la drammaturgia del Manfred; fino a integrare nella composizione i delicati rumori campestri presenti nella ripresa all'aperto. Inoltre la suggestione romantica della drammaturgia di Byron ha ispirato la... magìa della doppia presenza di Robert, che grazie ad una semplice tecnica di registrazione video esegue in effetti un duetto con sé stesso.
Per il progetto "Aspettando Manfred" oggi presentiamo "Puzzle", il nuovo lavoro scritto per l'OSI dal giovane compositore Roberto Danielis Squillaci, nell'ambito della nostra ormai consolidata collaborazione con il CSI.
Per ciascuno degli strumenti del quintetto di fiato Squillaci ha "distillato" diversi frammenti ispirati o direttamente tratti dalla Sinfonia "Manfred", lasciando però ampiamente libera la scelta delle combinazioni possibili; il "Puzzle", appunto, può quindi essere ricostruito in modo diverso ogni volta che il pezzo viene eseguito.
Questa impostazione ha dato la possibilità agli artisti video del CISA di creare anche visualmente un mosaico in continuo movimento con tessere di dimensioni diverse, costruendo così con le immagini registrate in diversi punti dei giardini di Villa Diodati a Cologny, residenza svizzera di Lord Byron, un suggestivo e cangiante caleidoscopio.
Anche in questo brano i musicisti dell'OSI impegnati sono Alessandra Russo al flauto, Federico Cicoria all'oboe, Paolo Beltramini al clarinetto, Alberto Biano al fagotto e Vittorio Ferrari al corno.
Con "Seven Spirits" del compositore tedesco Marc Sinan si conclude il nostro appassionante viaggio verso l'ormai prossima esecuzione della Sinfonia "Manfred" di Čajkovskij. Sinan ci propone una visione fortemente contrastata della narrazione di Byron; anche in relazione ad intime esperienze personali percepisce la figura di Manfred come "un narcisista, che trae dalla sua percepita superiorità il diritto di poter dimenticare". Il brano è dedicato al padre di Sinan, che portava anch'egli il nome Manfred.
Le sette parti di corno solista del brano sono state tutte registrate da Zora Slokar al Pré Byron, accanto a Villa Diodati, ciascuna con una diversa angolatura, in modo da creare un cerchio attorno al centro del piazzale, dove era sistemata la videocamera.
L’autore si ispira alla drammaturgia del Manfred di Byron e Čajkovskij, invece che ad un particolare elemento musicale della Sinfonia, lasciandosi coinvolgere dall’idea del precario equilibrio psicologico del personaggio.
Lavorando su un breve estratto tematico del primo movimento del Manfred, il dramma viene presentato qui come incomunicabilità: i due strumenti si inseguono senza sosta, come un amore non corrisposto. Alla fine, però, si trovano e se ne vanno sfiniti in direzione ignota.
La drammaturgia viene sottolineata dall’elegante elaborazione visiva degli allievi del CISA.
Il compositore si concentra sull’espressività della tonalità di si minore, così peculiare per Čajkovskij. Distillandone l’essenza con una tessitura avvolgente del registro più grave dei due flauti, termina poi con intensità verso l’acuto, con un grido lancinante.
Come già era successo con Robert Kowalski, Alessandra Russo qui si sdoppia duettando con sé stessa.
Secondo le parole dello stesso compositore, «il brano prende ispirazione da una frase del primo movimento.
L’ossessività meccanica della ripetizione del gesto strumentale e la ricerca della perfetta esecuzione servono a raccontare un dramma nascosto».
Orchestra residente al LAC (Lugano Arte e Cultura) di Lugano, prosegue il suo cammino di successo sotto la bacchetta di Markus Poschner, direttore principale dal 2015.
Iscriviti alla newsletter
Scoprire in anteprima contenuti speciali.